I compagni del Collettivo Anarchico Incubo Meccanico cominciano la risposta alle mie obiezioni al loro precedente documento partendo dalla questione della coerenza. Del mio articolo dicono innanzitutto di condividere “perfettamente l’opinione – che vi è espressa – secondo la quale sarebbe davvero limitativo valutare la fallacia di una posizione politica per il solo fatto che chi la sostiene non si mostri integrale osservante di tutte le critiche formulate.” Li ringrazio, ma non è per nulla farina del mio sacco: nello studio delle fallacie logiche la cosa ha una lunga storia e persino un nome di matrice medievale – Ad Hominem Tu Quoque.[1] Mi sono solo limitato a riportarla, per un semplice fatto: pur sapendo ed affermando esplicitamente che non si trattava di un valido elemento di critica alle posizioni altrui, mi permetteva però di mettere in evidenza un punto chiave, legato alla questione del linguaggio come tecnica, e di lì sviluppare la mia argomentazione effettiva.
Così inizialmente sembrerebbero fare anche loro nei miei confronti: dicono che anche io sarei in notevole contraddizione con le mie idee, in quanto il mio mestiere di insegnante fa sì che io lavori per lo Stato e che questo, però, di per sé, non inficia le mie idee. A questo punto, però, sembrano dimenticare quanto hanno detto poche righe prima e mi accusano, diversamente da loro, di aver usato l’argomento dell’incoerenza comportamentale per screditare le loro idee. Essi inoltre affermano nell’articolo di non amare particolarmente la coerenza: “In quanto categoria morale, solo i fedeli sono ossessionati dalla coerenza. In un mondo autoritario, impositivo e burocratico (come quello in cui tutti siamo costretti a vivere) non è sempre possibile comportarsi come si vorrebbe. Essere imprigionati non ci consente di poter fare tutto quello che vorremmo, e se qualcuno pensa di poter fare diversamente, di essere puro e sempre coerente con ciò che pensa o dichiara a livello di principio, ce lo dimostri con la pratica e non solo attraverso prediche da “peccatore” come tutti gli altri.”
Hanno perfettamente ragione, ma era esattamente questo il senso per cui avevo fatto notare che una critica relativamente all’incoerenza tra idee e prassi del portatore di una teoria non inficia la teoria stessa. Ancora una volta però li devo ringraziare, in quanto stavolta mi permettono di affrontare un tema che ritengo in generale interessante relativamente alla prassi dei movimenti antagonisti allo stato di cose presenti e che, nel mio precedente articolo, era solo uno spunto strumentale non sviluppato adeguatamente.
Innanzitutto, va detto che la coerenza non è sempre un dato assoluto, un “tutto o niente”, ma una questione di gradi e ciò dipende dalla teoria di cui uno è portatore. Ora l’anarchismo nelle sue varie sfaccettature – primitivismo escluso – non nega affatto la validità in sé dell’educazione, della salute, dello svago, della produzione agricola, di quella manifatturiera, ecc. Sostiene, al contrario, che le relazioni gerarchiche che ammorbano l’umanità da 5.000 anni circa a questa parte ingabbiano e depotenziano a vantaggio di pochi – oggi sempre più pochi – queste basilari funzioni sociali; non solo, ma immaginano di ricostruire una società nuova, non gerarchica, proprio intorno ad esse, liberate dai condizionamenti gerarchici del presente, dal dominio politico, economico, mercantile e monetario. Per cui, tendenzialmente, nel momento in cui si riuscisse a giungere ad una società egualitaria e libertaria, ognuno, per così dire, tendenzialmente “resterebbe ai propri posti”: l’insegnante, il medico, l’infermiere, l’operaio, il contadino, l’artigiano, il musicista, ecc. continuerebbero, nella maggior parte dei casi, a svolgere il proprio lavoro, all’interno però di una rete di rapporti sociali che li renderebbe ugualmente degni di partecipare alla redistribuzione della ricchezza sociale collettivamente prodotta – do you remember “da ognuno secondo le sue possibilità, ad ognuno secondo i suoi bisogni”?
Di conseguenza, l’incoerenza di chi fa l’insegnante, il medico, l’infermiere, l’operaio, il contadino, l’artigiano, il musicista, ecc. sotto i rapporti sociali oggi dominanti è decisamente relativa, se questi si rifà alla tesi anarchiche. Il grado di incoerenza sarebbe, invece, decisamente maggiore se uno che si rifacesse all’anarchismo partecipasse direttamente agli apparati di dominio: facesse, per esempio, il padrone di azienda, il governante, il militare, ecc. Una incoerenza, insomma, che giunge al punto tale che, in casi come questi, ci si deve chiedere se davvero la persona ha compreso il senso delle teorie che afferma di condividere e/o se ci sta ingannando. Questo perché, avendo a disposizione un’enormità di altri mestieri a disposizione non direttamente coinvolti nel mantenimento delle logiche del dominio, ha scelto intenzionalmente di lavorare proprio in questi – nulla, insomma, lo obbligava ad una tale incoerenza assoluta.
Ora forse i compagni “primitivisti” – in generale, non solo i miei immediati interlocutori – non se ne rendono conto, ma la loro teoria li infila direttamente e senza passare dal via in questo stato di incoerenza assoluta. Il mondo è bello perché è vario e, nella mia esistenza, una trentina di anni fa ho avuto anche la ventura di incontrare un “anarchico” che criticava l’anarchismo comunista e sociale in generale e la FAI in particolare, l’anarcosindacalismo, ecc. in nome delle posizioni bonanniane in cui affermava di riconoscersi. Tutto standard, se non fosse che di mestiere faceva la guardia carceraria (giuro!). Cosa potete pensare di un simile personaggio non ho dubbi: il problema è che per la teoria primitivista qualunque funzione sociale è strumento diretto di perpetuazione della società tecnologica, anche la semplice e minimale agricoltura. Né più né meno del carcere.
La Questione della Civilizzazione
Detto questo, sempre in nome della sacrosanta critica all’Ad Hominem Tu Quoque, l’incoerenza radicale del pensiero primitivista nella (mancanza di) prassi dei suoi portatori potrebbe tranquillamente non accompagnarsi ad una sua falsità, per cui passo ora alla parte dell’articolo dei compagni del Collettivo Anarchico Incubo Meccanico in cui essi provano a smontare le mie critiche ad esso.
“Venendo poi al contenuto dell’articolo, e in particolare alle considerazioni esposte sul linguaggio, vogliamo qui manifestare tutto il nostro sconcerto nel riscontrare quanto poco attento sia il livello del confronto. Infatti, senza dover dire che il linguaggio NON è una tecnica ma una manifestazione simbolica della cultura, siamo costretti a prendere atto che il compagno Voccia, nel sostenere che non sarebbe possibile criticare la stanzialità, l’agricoltura e la tecnica senza aver prima criticato il linguaggio, dimostra semplicemente di non aver mai letto un libro primitivista. Ci sono pagine e pagine di testi anarco-primitivisti che criticano radicalmente il linguaggio, e se solo si facesse lo sforzo di leggere qualcosa (invece di giudicare senza conoscere) forse tanta inutile polemica potrebbe essere superata.”
Il linguaggio non è una tecnica ma una manifestazione simbolica della cultura: come dire questa non è zuppa, è pan bagnato. Ho l’impressione che ai compagni del Collettivo Anarchico Incubo Meccanico non sia chiaro il concetto di “simbolo” e li rimando alla prima frase della relativa voce di Wikipedia: “Il simbolo è un elemento della comunicazione, che esprime contenuti di significato ideale dei quali esso diventa il significante.”[2] Significato, Significante… insomma una tecnica. I compagni perciò se ne facciano una ragione: se ne rendano conto o meno, il linguaggio è una tecnica e, per di più, quella fondamentale, da cui derivano tutte le altre, come ho argomentato nell’articolo precedente cui cercano di rispondere. Se vogliono davvero distruggere la “civilizzazione” in quanto radice di tutti i mali, dovrebbero cominciare da esso – e non invitare gli altri ad usarlo, come fanno invitandomi ad una lettura più attenta dei testi primitivisti. Se si vuole essere contrari alla “civilizzazione” non è questione di “criticare” il linguaggio – occorre distruggerlo in quanto fondamento principale della civilizzazione: era questo che dicevo nell’articolo precedente. Qui, poi, non si tratta di una contraddizione, come dire, legata ad una discordanza tra teoria e prassi: è una contraddizione interna alla teoria che, da un lato, afferma che è necessario superare la civilizzazione tecnica e tecnologica, dall’altro intende mantenere il fondamento stesso di questa. Il fatto che non si condividano affatto, come me, le tesi primitiviste non implica non riuscire a coglierne le debolezze.
Non poi ha molto senso citare in merito le tesi di Sapir e Whorf – che tra l’altro, in seguito, le hanno poi molto ridimensionate – in quanto banali: è ovvio che il linguaggio, potendo veicolare qualunque contenuto, può veicolare anche – ma non solo – le istanze del potere gerarchico. Ma anche assolutizzando la tesi da voi citata di Claude Lévis-Strauss, che non condivido, per cui “la funzione primaria della comunicazione scritta è facilitare l’asservimento”, ancora una volta non si capisce perché scriviate. Molto più valida mi pare, invece, la posizione sempre da voi citata di Pierre Clastres – “Parola e potere intrattengono rapporti tali che desiderio dell’una si realizza nella conquista dell’altro. Principe, despota o capo di Stato, l’uomo di potere è sempre non solo l’uomo che parla, ma la sola fonte di parola legittima” – che, però, mi pare voi non comprendiate. Clastres non afferma che il linguaggio è il fondamento del potere gerarchico ma, basta leggere con attenzione la frase, che questi ne fa un oggetto di conquista all’interno della società.
Ad un certo punto, poi, mi fate una strana obiezione: dite che sbaglio a citare come esempi di società dove l’agricoltura non ha comportato la formazione di gerarchie sociali le numerose società prestatali, studiate dalla cosiddetta “archeologia al femminile” perché “oltre a non dire nulla su come nascerebbero le società del dominio, quando parla [Eisler] di quelle mutuali prende come riferimento la società minoica (così chiamata in onore del RE mitologico Minosse) la quale, stanziatasi sull’Isola di Creta e sviluppatasi soprattutto in età del bronzo (tra il 2500 e il 1500 a.C.), era appunto una società agricola, e per tanto già strutturata gerarchicamente, autoritaria, religiosa, aggressiva e improntata al dominio militare e commerciale, tanto che di essa si parla in termini di “talassocrazia minoica” (e cioè appunto del dominio militare e commerciale da essa esercitato nel Mare Egeo e sui territori in esso contenuti e che vi si affacciano). Nella civiltà minoica esisteva una rigida divisione di classe (dimostrata dall’esistenza di ville e palazzi – che erano insieme centri di governo, uffici amministrativi e santuari), si faceva la guerra (la costruzione di siti fortificati lo dimostra, così come la produzione di armi da guerra e di scudi), si poteva essere schiavizzati, si subivano tutte le violenze tipiche di una società civilizzata, dalla giustizia burocratica alla violenza portata dalla legge del mercato (scarsità/povertà, usura, speculazione); inoltre, si praticavano sport sanguinosi e iniziatici (come in tante società neolitiche) e, dulcis in fundo, si allestivano persino cerimonie rituali che prevedevano l’uccisione di esseri umani. Dunque una società terribile (come lo sono tutte quella successive alla comparsa dell’agricoltura), nella quale dominava il terrore, l’irreggimentazione culturale a tutti i livelli, la discriminazione di classe e la violenza.”
Beh, qui c’è in abbondanza un’altra fallacia logica: la petitio principii, cioé un “ragionamento” nel quale la proposizione che deve essere provata è presupposta implicitamente o esplicitamente nelle premesse. L’affermazione da dimostrare viene cioè data per scontata nel corso del ragionamento che dovrebbe, invece, dimostrare che è vera.[3] Dite, infatti, che Minosse è un personaggio mitologico e poi dite che i re esistevano davvero; che è una società agricola e pertanto strutturata gerarchicamente, divisa in classi, con la schiavitù, che si facevano sacrifici umani, con un governo, ecc. Ora, tutte queste cose le dovevate dimostrare: tanto più che gli studi archeologici non sono precisamente dalla parte della vostra interpretazione – per usare un eufemismo. Il libro della Eisler che avevo citato a mo’ di testo riepilogativo di una serie molto nota di indagini (e non solo sulla civiltà cretese) e di cui avevo, come ricordato da voi stessi, evidenziato i limiti dell’autrice, ne cita in abbondanza: voi non li smentite contrapponendogli magari altri studi ma date per presupposto che, essendo una società agricola, devono essere sbagliati – la petitio principii, appunto. L’unica “prova” che citate è il termine “talassocrazia”: beh, avreste potuto notare che è un termine del greco classico, usato da Tucidide[3] oltre mille anni dopo gli eventi che pretende di descrivere e di cui non possiede alcuna prova paragonabile agli studi succitati, ma solo leggende nate in un ambiente, questo sicuramente, fortemente gerarchizzato il che con molta probabilità può aver fortemente condizionato la costruzione mitica. Si tratta, in ogni caso, di questioni che si affrontano con le tecniche archeologiche e non in base ad opinioni – la mia o la vostra è indifferente.
La Questione dell’Apparenza
Il discorso che farò adesso non ha direttamente attinenza con il movimento primitivista, ma è molto più generale. Il caso di movimenti politici che mostrano una forte dissonanza tra la teoria e la prassi, nel senso di una prassi estremamente ridotta rispetto a premesse teoriche, e che vivono sostanzialmente della irruenta critica verbale “da sinistra” delle posizioni altrui ritenute fintamente rivoluzionarie, infatti, non è affatto nuovo nei movimenti d’opposizione e, a mio modo di vedere, necessita di una interpretazione.
Per comprenderci, farò un esempio astratto. Ipotizziamo un gruppo che teorizza il calpestio delle aiuole pubbliche o private come unico ed autenticamente rivoluzionario mezzo di lotta per giungere ad una autogestione comunitaria delle stesse. Di questa posizione fa larga pubblicità, mostrando una forte animosità verso coloro che non sono convinti della strategia in questione, contro i quali vengono mosse le accuse più varie, ma riconducibili al tratto comune che soltanto loro, i calpestatori di aiuole, sono i veri rivoluzionari, gli altri sono invece dei finti rivoluzionari se non dei collusi col potere. Supponiamo che questo gruppo agisca da cinquant’anni, abbia coinvolto migliaia e migliaia di persone in questa loro teorizzazione ma, se si vanno a fare i conti, si scopra che di aiuole ne hanno calpestate ben poche – un’unica scolaresca in gita un po’ più irrequieta della media ha calpestato in un giorno solo più aiuole di quanto abbiano fatto loro in tutto questo tempo e che i guardiani dei parchi, sostanzialmente, salvo rari casi, hanno avuto a che fare con ciascuno di loro solo per apologia di reato.
In realtà, se si esce dalle nebbie dell’ideologia, il comportamento di questo gruppo ipotetico di – a parole – indomiti calpestatori di aiuole, è facilmente comprensibile. Di là della buona fede soggettiva, sta di fatto che l’organizzazione non è tarata per calpestare le aiuole, ma per far apparire al minimo costo agli occhi del pubblico i suoi aderenti come i veri ed autentici rivoluzionari. In pratica, una sorta di grande recita a soggetto tutta interna alla società dello spettacolo.
Enrico Voccia
Qui l’articolo del Collettivo Anarchico Incubo Meccanico
NOTE
[1] http://www.linux.it/~della/fallacies/ad-hominem-tu-quoque.html .
[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Simbolo . Si tratta della frase iniziale ma gli consiglio – deformazione professionale – di leggere anche il resto.
[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Petitio_principii
[4] TUCIDIDE, Guerra del Peloponneso, I, 4.